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Codice in materia di protezione dei dati personali e Avvocati

La notizia apparsa ieri sul portale www.scint.it, a cura dell’Avv. Andrea Lisi, riguardante i maldestri tentativi di escludere la categoria degli Avvocati dall’osservanza del D. Lgs. 196/2003, credo che abbia suscitato nella mia coscienza un conflitto di emozioni e riflessioni, tra cui stupore, incredulità e per certi versi rabbia (per leggere l'articolo di Andrea Lisi cliccare qui). 

Stupore, in quanto non sono in grado di scorgere “tra le righe” le motivazioni logiche e giuridiche (non sussistono!!!) poste alla base di questo progetto di legge, evidentemente nato sotto la benedizione degli organismi più rappresentativi dell’Avvocatura.

Incredulità, non solo perché il romantico e suggestivo motto “La legge è uguale per tutti” sappiamo quanto sia stato e sia facilmente eludibile con una serie di interventi di “schizofrenia legislativa”, come quest’ultimo che dovrebbe essere esitato dal Parlamento, ma anche perché proprio la categoria di chi, giustamente, eredita dalla storia e dalla tradizione l’appellativo di “giurista per eccellenza” non può non comprendere, del tutto, la peculiarità di una legge, pur opinabile e modificabile in numerosi punti, posta a tutela dei diritti e degli interessi dell’avvocato e dei suoi assistiti.

E mi sia consentito provare anche un senso di rabbia, di pura irritazione, di fronte alla suddetta notizia, poiché proprio queste iniziative, prescindendo dall’esito finale che potranno avere, devono attirare l’attenzione, “solleticare e sollecitare” l’interesse di tutti gli operatori del diritto, compreso il sottoscritto, che hanno accettato impavidamente e senza la minima ritrosia l’affascinante sfida che l’avvento dell’innovazione tecnologica ha lanciato alla nostra e alle altre categorie dei liberi professionisti.

Ritenere non applicabili le disposizioni cristallizzate nel “Codice in materia di protezione dei dati personali”, nato anche per recepire una Direttiva comunitaria al riguardo, perché sussiste già l’art. 9 del “Codice Deontologico Forense” (che impone all’avvocato il dovere di segretezza e riservatezza per le informazioni apprese in ragione del suo esercizio), risulta essere, a mio modesto avviso, un grossolano e intenzionale errore interpretativo.

Ma ragioniamo per gradi.

Credo che ormai nessuno studio legale possa organizzare la propria struttura ed il proprio lavoro prescindendo dall’ausilio che gli strumenti informatici sono in grado di fornire. Non solo per la stesura dei singoli atti processuali, ma anche per la tenuta degli stessi in appositi archivi elettronici, ove i nomi delle parti e le loro vicissitudini, costituenti dati personali lato sensu, sono sempre consultabili. Ed indipendentemente dall’utilizzo di internet, anche questo presente nella quasi totalità degli uffici legali, non si possono non prendere i doverosi e necessari accorgimenti, sia tecnici che giuridici,  per la conservazione integrale e originale dei dati trattati. Se è vero, come è vero, che “è dovere, oltreché diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato”, non comprendo come questo “dover mantenere il segreto” sia interpretabile solo come divieto di divulgare volontariamente a terzi le notizie apprese durante e dopo l’espletamento del mandato difensivo, e non anche come obbligo di non consentire che “attacchi esterni” possano rendere vulnerabili i dati personali dei propri assistiti (secondo una interpretazione sistematica del Codice Deontologico Forense con il D.lgs. 196/2003).

Una cosa è di una verità lapalissiana:“Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano” (art. 1 Codice privacy); la corretta osservanza di questa disposizione normativa, all’interno di uno studio legale, non può essere meramente assicurata dal richiamo pretestuoso del Codice Deontologico Forense.

L’innovazione tecnologica impone alla categoria nel suo complesso l’attivazione di un processo di rivisitazione, in chiave moderna, della propria professione alla luce, appunto, degli irrefrenabili progressi scientifici e tecnologici, già regolamentati da una miriade di leggi.

Ma l’analisi del problema non riguarda solamente l’informativa (art. 13), il consenso (art. 23) o i trattamenti effettuati con strumenti elettronici (art. 34), che impongono l’adozione di misure minime di sicurezza, ma anche i trattamenti effettuati senza l’ausilio di strumenti elettronici (art. 35), per i quali è analogamente prevista l’adozione di misure minime, tra cui “la previsione di procedure per la conservazione di  determinati atti in archivi  ad accesso selezionato” (art. 35 lettera c).

La previsione di misure minime di sicurezza non riguarda solamente i dati trattati con strumenti elettronici e, pertanto, sistemi di autenticazione informatica, antivirus, firewall, copie di back-up, DPS e politiche di sicurezza in senso lato, ma anche i dati trattati in formato cartaceo, certamente da non tenere incustoditi sulla scrivania, sottoposti allo sguardo indiscreto non dei nostri zelanti collaboratori, ma degli altri soggetti, tra cui i nostri clienti, con cui l’avvocato è solito interagire.

Indipendentemente, quindi, dal netto rifiuto ideologico e culturale dell’innovazione tecnologica, il Codice della privacy, perfettibile in alcuni punti, prevede specificazioni concrete circa il trattamento dei dati in formato cartaceo, che non possono essere, di certo, elusi dalla categoria forense.

La questione presenta pure dei riflessi sociologici e culturali non indifferenti. Se questa legge, una volta emanata, dovesse passare indenne il giudizio di legittimità costituzionale, credo proprio che assisteremo a tre fenomeni incontrollabili ed ingestibili:

1)      una lotta tra le categorie professionali, che ingenererà un vero e proprio “assalto alla diligenza”; non si vede infatti perché le altre categorie dovrebbero accettare inermi una simile decisione;

2)      una perdita di credibilità e un atteggiamento di disistima nei confronti della classe degli Avvocati, già apostrofati, nell’immaginario collettivo, con epiteti non certo qualificanti;

3)      una lenta e progressiva erosione di una normativa che, seppur criticabile, credo costituisca una risorsa foriera di innumerevoli vantaggi, anche per gli Avvocati.

 

Non si può, per evitare di adottare le misure minime di sicurezza (credo proprio che sia questo il motivo di una siffatta iniziativa parlamentare) “cassare” per la più affascinante delle professioni liberali, con un colpo di spugna, una normativa , a mio avviso, di indiscusso valore e realizzatrice di molteplici “interessi giuridici”.

In conclusione mi limito ad affermare ciò: nulla potrà fermare il progresso tecnologico; l’interessante è cavalcarlo con saggezza e far sì che il diritto, che è la più viva espressione della coscienza sociale, possa sempre essere al passo con i tempi e con le sue sfide. Ritenere non applicabili le disposizioni del Codice Privacy e i suoi adempimenti burocratici alla categoria degli avvocati potrebbe costituire l’incipit di un lento arresto del processo di modernizzazione del nostro sistema di vita, con consequenziale perdita di competitività dell’ “Azienda Italia”.       

 

Dott. Roberto Lanfranco

 

29/07/2005

 

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