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Il riconoscimento delle sentenze italiane all'estero: a cura di Danilo Desiderio

Il riconoscimento delle sentenze italiane all’estero

Avv. Danilo Desiderio

 

Nei contratti internazionali, dove spesso vengono a contatto due ordinamenti giuridici differenti, talvolta assai diversi fra di loro (si pensi ad un contratto tra una parte di un Paese dove vige la “common law” ed una parte appartenente ad un sistema di “civil law”), il problema principale, in caso di nascita di una controversia, è quello di stabilire in base a quale diritto essa verrà risolta. Innanzitutto, per fare ciò, occorrerà guardare al contratto stesso, in quanto nella maggior parte dei casi le parti avranno stabilito nello stesso testo contrattuale qual è il giudice competente. E’ anche possibile che le parti abbiano inserito in esso una clausola arbitrale, in virtù della quale la soluzione di eventuali controversie viene deferita ad uno o più arbitri.

Immaginiamo, nel caso in cui una delle parti sia italiana, che quest’ultima riesca ad imporre alla controparte il proprio giudice nazionale come soggetto competente in ordine ad eventuali controversie. I problemi iniziano quando occorre applicare la decisione (di un giudice italiano, lo si ricordi) in un altro Paese (e quindi in un altro ordinamento). Il riconoscimento della decisione giudiziale (emessa in Italia) all’estero infatti non così automatico come potrebbe sembrare. Ecco perchè tale possibilità di riconoscimento va valutata a priori: è del tutto inutile attribuire al giudice italiano la competenza in ordine alle controversie insorgenti nell’ambito di un contratto internazionale, quando poi si sa che la sua decisione non sarebbe comunque riconosciuta all’interno del Paese della controparte, dove in genere essa va applicata. Si noti che solo in pochi casi esistono tra l’Italia e gli Stati al di fuori della U.E. convenzioni bilaterali che regolano il riconoscimento delle sentenze. In mancanza di tali convenzioni bilaterali, sarà opportuno agire in giudizio davanti al foro competente ove è domiciliato il debitore.

Facciamo un esempio: in un contratto di compravendita internazionale fra 2 parti, si immagini una italiana ed una cinese, viene stabilito che il giudice competente in ordine ad eventuali controversie è quello italiano. Poco dopo la stipula dello stesso, si verifica un inadempimento della parte cinese. La controparte italiana la cita in giudizio e riesce ad ottenerne la condanna (dal giudice italiano). La parte cinese non dispone di beni in Italia sui quali ci si possa rivalere, per cui si tratta a questo punto di portare ad esecuzione la sentenza nel Paese della controparte (ossia in Cina). Nel caso specifico, l’esecuzione del provvedimento del giudice italiano sarà possibile essendo in vigore fin dal 1° gennaio 1995, un Trattato tra Italia e Cina relativo all’assistenza giudiziaria in materia civile.

Ma se la sentenza doveva essere portata ad esecuzione in un Paese diverso, con cui il governo italiano non ha sottoscritto accordi bilaterali sul riconoscimento reciproco delle sentenze, tale possibilità sarebbe rimasta preclusa alla parte italiana. In questo caso infatti quest’ultima non avrebbe potuto fare altro che rassegnarsi alla possibilità di soddisfare le sue pretese.

Non sarebbe stato dunque meglio a questo punto, attribuire direttamente al giudice straniero la competenza per le controversie nascenti dal contratto, o meglio ancora, inserire una clausola arbitrale all’interno dello stesso?

Si può facilmente constatare come la scelta del foro italiano celi il più delle volte un'insidia: essa si rivela di fatto valida, solo a condizione che la sentenza italiana possa ottenere riconoscimento nel Paese della parte avversa.

La conclusione che ne possiamo trarre è che la  possibilità di riconoscimento va valutata a priori: è del tutto inutile attribuire al giudice italiano la competenza in ordine alle controversie insorgenti nell’ambito di un contratto internazionale, quando poi la sua decisione non viene riconosciuta all’interno del Paese della controparte, dove probabilmente essa va applicata.

Problemi minori insorgono invece quando le parti di un contratto internazionale appartengono entrambe all’Unione Europea, essendo qui in vigore una Convenzione (Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968), che agevola il riconoscimento delle sentenze emesse dalle autorità giurisdizionali dei Paesi che vi hanno aderito. Le norme della Convenzione di Bruxelles sono state poi estese successivamente agli Stati dell'EFTA (Islanda, Norvegia, Svizzera), nonché alla Polonia, dalla Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988 concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.

Infine nel marzo del 2002 è entrato in vigore un regolamento (n. 44/2001), che  ha facilitato ancora più il riconoscimento delle sentenze e di qualsiasi altro provvedimento giurisdizionale all’interno dell’U.E., snellendo e rendendo più celere il relativo procedimento. Questo Regolamento, noto come “Bruxelles I” e concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, si applica oggi anche ai Paesi nuovi entrati nell’UE (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia, Ungheria) e sostituisce la Convenzione di Bruxelles, applicandosi a tutti i Paesi dell’Unione Europea, con l’eccezione della Danimarca (per la quale continua a restare in vigore la suddetta Convenzione di Bruxelles).

La principale novità introdotta dal Regolamento 44/2001 è costituita dal fatto che, mentre sotto il regime della Convenzione di Bruxelles, il giudice del Paese dove la sentenza andava portata ad esecuzione poteva entrare nel merito della decisione, con la possibilità di rilevare anche eventuali motivi di nullità della stessa, ora il Regolamento n. 44/2001 consente di ottenere in tempi brevi la dichiarazione di esecutività di una decisione giudiziaria, in quanto il giudice del Paese di esecuzione deve solo compiere solo un controllo puramente formale della decisione. I tempi di riconoscimento della decisione ne risultano dunque notevolmente abbreviati.

Ricordiamo un attimo come avviene tale riconoscimento: la parte comunitaria che intenda far eseguire una sentenza pronunciata dal proprio giudice nazionale in Italia, dovrà rivolgersi innanzitutto alla Corte d’appello nel cui distretto è situato il domicilio della controparte italiana (contro cui si intende chiedere l’esecuzione), depositando un ricorso ed un certificato del giudice che ha adottato la decisione, senza bisogno di alcuna legalizzazione od altra formalità analoga. La Corte d’Appello a questo punto eseguirà il controllo formale della decisione del giudice dell’altro Paese comunitario (senza in alcun modo entrare nel merito della stessa), controllando sostanzialmente tre cose:

1)      che la decisione rientra nella sfera di applicabilità del regolamento UE suddetto;

2)      che è esecutiva;

3)      che la Corte è competente.

Se è tutto in regola, la Corte d’appello emette un proprio provvedimento il quale verrà comunicato alla parte che ha presentato il ricorso, che a sua volta dovrà notificarlo alla parte italiana contro la quale si chiede l’esecuzione della sentenza. Si può constatare come si tratti di un procedimento a contraddittorio differito (ed eventuale): se la parte italiana, nell’esempio sopra citato, non presenta ricorso (entro 30 gg. dalla notificazione stessa) contro il provvedimento della Corte d’Appello, la decisione del giudice straniero diviene perfettamente esecutiva. Dunque il contraddittorio si apre solo nel caso in cui  la parte italiana propone ricorso contro il suddetto provvedimento della Corte d’Appello.

I tempi del riconoscimento di un provvedimento di un giudice comunitario in Italia variano dai 2 ai 4 mesi (in quanto i “tempi di reazione” delle singole Corti di Appello non sono uniformi).

Lo stesso meccanismo, ovviamente, può esser utilizzato per ottenere l’esecutività in altro Paese UE della decisione italiana, fermo restando che a seguito dell’avvenuta modifica dell’art. 633 c.p.c. ad opera del d.lgs. 231/2002, è oggi possibile utilizzare il procedimento d’ingiunzione (e quindi il decreto ingiuntivo), anche per recuperare crediti nei confronti di debitori residenti all’estero, possibilità che in passato era preclusa, stante la previsione dell’ultimo comma dell’art. 633, ora abrogato, il quale stabiliva che il decreto ingiuntivo non poteva essere pronunciato se la notificazione al debitore doveva essere effettuata al di fuori del territorio della Repubblica italiana.

Ciò, naturalmente, a condizione che sussistano tutti i requisiti richiesti dagli artt. 633 e ss. del codice di procedura civile per potersi avvalere del procedimento di ingiunzione, in base ai quali potrà ottenere un decreto ingiuntivo chi risulta creditore in base ad una prova scritta, di una somma di danaro liquida (cioè di ammontare predeterminato) ed esigibile o di una determinata quantità di cose fungibili. 

 

 

15/06/2004

 

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